Ilo Ilo, regia di Anthony Chen. Con Koh Jia Ler, Angeli Bayani, Chen Tian Wen, Yeo Yann Yann. Singapore. Visto al Milano Film Festival 2013.
Presentato all’MMF il film vincitore quest’anno a Cannes della Caméra d’or come migliore opera prima. Il suo regista ha solo 29 anni, ma già una grande sicurezza nel raccontare e nel mettere in scena questa storia di una media famiglia nella Singapore 1997. Per tenere a freno il figlio indisciplinato viene ingaggiata una filippina, un po’ colf, un po’ badante-baby sitter. Scatterà, dopo un burrascso inizio, un’alleanza tra i due. Ritratto nei toni della commedia, eppure disincantato, di un interno familiare asiatico dominato dalla ferrea logica dei soldi, dell’ambizione, della rivalità, della sopraffazione. Voto 7+
Quest’anno mi pare che il Milano Film Festival abbia fatto un salto ulteriore, con un programma corposo e di film importanti. Film in gran parte provenienti da altri festival (da Berlino soprattutto), ma lì annegati nell’eccesso di offerta e qui invece resi disponibili sia ai festivalieri che magari se li erano persi, sia a chi ai festival non va. Arriva da Cannes, e arriva da vincente, questo Ilo Ilo del regista made in Singapore Anhony Chen, 29 anni soltanto, al primo lungometraggio, e con parecchi corti alle spalle tra l’altro presentati ai precedenti MFF, a dimostrazione di come questa rassegna milanese ci azzecchi spesso e veda lungo. Perché Chen con Ilo Ilo a Cannes si è portato a casa nientemeno che la Caméra d’or, il premio assegnato alla migliore opera prima tra tutte quelle presentate nelle sezioni ufficiali (Compétition, Un certain regard, Fuori concorso) e nelle rassegne indipendenti e collaterali (Quinzaine des Réalisateurs e Semaine de la critique). Agnès Varda, che presiedeva la giuria della Caméra d’or, nel consegnare il riconoscimeno al giovanissimo regista singaporiano lo ha elogiato con un lungo e sentitissimo speech (ma quando finirà?, ci si chiedeva sgomenti in sala stampa), anche per la capacità di miscelare registri e linguaggi differenti. Sicché, quando sono andato l’altra sera a vedermi il film qui al MFF (a Cannes era tra quelli che non ero riuscito a beccare), le mie aspettative erano altissime, e non vedevo l’ora. Non è che poi Ilo Ilo mi abbia deluso, no, è certo un film di rispetto, però non vi ho ritrovato quella leggerezza e quella nonchalance, quella disinvoltura di confezione, quel coraggio che mi erano sembrati trasparire dalle parole della Varda. Un bel film, una scoperta anche, ma l’esplorazione delle nuove frontiere cinematografiche è un’altra cosa. Quel che colpisce è il mestiere già perfetto di Chen, la sua sicurezza quasi naturale, da narratore puro, nel disegnare i caratteri, nel metterli a confronto, nel far nascere il racconto. Abbastanza impressionante. Il ragazzo non sbaglia un colpo, sa tenere sotto controllo fili e diramazioni della trama, ha la giusta dose di ruffianaggine per colpire al cuore e anche più sotto se necessario il suo pubblico. Credo che in Ilo Ilo ci sia qualcosa, e anche più di qualcosa di autobiografico. Credo. Siamo a Singapore difatti, e ci siamo nel 1997, anno della prima grande crisi finanziaria asiatica, quella che fece gridare alla fine del miracolo delle tigri. Adesso, lo sappiamo, fu solo una pausa, un rallentamento momentaneo, nell’ascesa del continente. Il che consente però a Chen di prendere la città-stato in una fase di sospensione e di frattura, quando la crisi mette a nudo non solo le fragilità e le diseguaglianche sociali ed economiche, ma anche certe crepe esistenziali, private. Nei toni della commedia Chen entra e ci fa entrare in una casa medio-piccoloborghese, padre venditore, madre impiegata (e batte ancora a macchina: nel 1997!), genitori sempre affacendati e parecchio assenti, con il figlio Jiale sui dieci-undici anni che, signora mia, è una peste. Uno che a scuola mena, per difendersi certo, però mena, e ne combina di ogni e non è proprio un campione di studi, oltre che di disciplina. Per tenerlo sotto controllo i genitori si prendono in casa una colf filippina di nome Teresa cui affidare non solo l’irrequieto bambino, ma anche la gestione domestica, dalla spesa allo stiro al passaggio dell’aspirapolvere. Son queste le parti migliori di Ilo Ilo, quando Chen ci mostra la stronzaggine della padrona di casa, di come sequestri il passaporto di Teresa schiavizzandola (“così non potrà tagliare la corda”, spiega al marito pure lui, come noi, esterrefatto). All’inizio anche Jiale maltratta quella giovane donna venuta da un’isola chiamata Ilo Ilo per tirar su un po’ di soldi e mantenre il suo bambino di non ancora un anno. In questa fase il regista sa benissimo orchestrare, pur nella leggerezza e perfino in certi momenti nella grazia, il suo teatrino familiare della crudeltà. Si sorride e si ride, ma il quadro che ne vien fuori è abbastanza implacabile. Quello di una famiglia che persegue pervicacemente il benessere e la rispettabilità borghese costino quel che costino, dove tutto è sottomesso alla convenienza, al denaro, alle regole dell’ipocrisia. Il rapporto tra la padrona e la serva è di una sottile ferocia che ci rimanda, pur in versione depotenziata e di commedia, a Losey-Pinter e Genet (quando lei in bagno si mette il rossetto della signora). Poi qualcosa succede, ed è l’imprevedibile alleanza tra il bambino quasi teppista e la giovane donna venuta dalle Filippine. Jiale si legherà a lei come a una madre sostitutiva e surrogatoria, e la vera se ne accorgerà, e proverà fastidio e forse sofferenza. Niente sfugge allo sguardo ironico e impietoso del giovane Anthony Chen: Singapore e la sua egemone comunità cinese, i riti familiari e di clan, i rapporti di lavoro gerarchici e spesso vessatori, un panorama urbano, se non degradato e sporco, certo lontano dall’immagine convenzionale di Singapore campione di ordine e pulizia. I licenziamenti si susseguono, la gente si impoverisce e si incazza, pur senza ribellioni manifeste. Singapore non è quell’angolo di paradiso che tanta retorica e propaganda pro-asiatica ci hanno consegnato per molto tempo. Poi nell’ultima parte Ilo Ilo si sfilaccia, non osa più, prevalgono i buoni sentimenti e il dolciastro. Ma il film resta, c’è, ed è un film che rivela un autore, e che qualche distributore dovrebbe importare e far circolare in Italia.
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Recensione: ILO ILO (dal Milano Film Festival). Ritratto – ironico e abbastanza impietoso – di famiglia di Singapore con colf filippina
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